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"Non viaggio per scappare, ma per scoprire"

Nuova Zelanda – Isola Nord

Road trip nella Terra di Mezzo

Dopo cinque mesi di lavoro a Auckland, a metà aprile sono finalmente partito per il mio road trip dell’Isola Nord della Nuova Zelanda. Per questo giro ho deciso di noleggiare un mezzo piuttosto che comprarlo (come feci, invece, in Australia), perché sapevo che non sarei stato in giro più di 20-25 giorni.

Wicked Campers si è aggiudicata la mia scelta per il favorevole rapporto qualità prezzo. Con circa 25 $ al giorno ho potuto così noleggiare un van spazioso e attrezzato con materassi, occorrente da campeggio, fornelletto a gas, stoviglie, un piccolo lavandino con due serbatoi d’acqua e, soprattutto, casualmente aerografato con un omaggio a Jeff Buckley.

La prima tappa è stata la costa ovest, poco fuori Auckland. In quella piccola penisola ci sono parecchie spiagge, famose per la loro sabbia nera. La sabbia di Kare Kare, Piha, Bethells e Muriwai è nera per via dell’alto tasso di ferro presente in essa, conseguenza delle numerose eruzioni vulcaniche del Pleistocene.

A metà aprile il clima neozelandese non consente di vivere le classiche giornate da spiaggia estive, ma d’altro canto la gente che viaggia qua e là è decisamente poco numerosa, e le temperature si sono comunque aggirate intorno ai 20° (o più) per tutte le tre settimane.

Il secondo giorno di viaggio mi sono diretto verso nord, iniziando il viaggio vero e proprio.

Insieme ad un’amica ho deciso di raggiungere Pouto, situato in una penisola a nord di Auckland. Ci siamo recati là perché avevamo saputo di “infinite dune di sabbia di fronte all’oceano”. In effetti le dune c’erano, e anche l’oceano, però per raggiungerle abbiamo dovuto guidare per un’ora dalla città più vicina (Dargaville) e, per di più, l’ultimo terzo di strada non è asfaltato. Ovviamente, essendo una stretta penisola, poi bisognava anche rifare la stessa strada nel senso opposto.

Insomma, a meno che non siate dei grandi amanti di dune sabbiose – che tra l’altro non sono nemmeno così alte – potete assolutamente evitare di spingervi fin laggiù.

Il terzo giorno è andato un po’ meglio, quando ci siamo spinti fino alla Waipoua Forest, un paio d’ore a nord di Dargaville. Più ci allontanavamo dalla “brutta” Auckland e più i panorami diventavano selvaggi ed incontaminati.

La foresta Waipoua – situata nella zona ovest del Northland – è una foresta di kauri (Agathis australis), alberi sempreverdi con tronco chiaro, presenti esclusivamente in quest’isola. Possono diventare veramente enormi, e nella Waipoua Forest è possibile vedere il più grande esemplare ancora in piedi, il kauri Tāne Mahuta (Signore delle Foreste in lingua Maori), alto circa 52 metri e soprattutto con una circonferenza di quasi 14.

A parte qualche passeggiata per i sentieri prestabiliti della foresta non c’era molto da fare, così ci siamo spostati ancora più a nord, passando per la bellissima cittadina costiera di Omapere, attraversando verdissime vallate piene di pecore e vacche al pascolo, per dirigerci verso la tappa successiva, Cape Reinga.

Cape Reinga è l’estremità nord della Nuova Zelanda, che si spinge su con una stretta lingua di terra per concludersi con un bellissimo promontorio a picco sul mare, dotato di classico faro di segnalazione rosso e bianco.

Il punto d'incontro dell'Oceano Pacifico, a est, col Mar di Tasman a ovest.

Il punto d’incontro dell’Oceano Pacifico, a est, col Mar di Tasman a ovest.

Proprio davanti al promontorio è possibile vedere ad occhio nudo l’incontro tra il Mare di Tasman a ovest e l’Oceano Pacifico a est. Nel punto in cui i due mari si scontrano, enormi onde rotolano senza sosta su se stesse, circondate da acqua più calma. Proprio in questo tratto di costa sono avvenuti decine di naufragi nei secoli passati, proprio per via delle infide correnti marine.

Subito dopo Cape Reinga ci siamo spostati verso sud, questa volta rientrando dalla parte est del Northland e seguendo quella costa, oltrepassando le inutili Paihia e Keri Keri.

Qui mi accorsi di quanto in Nuova Zelanda le distanze fossero estremamente diverse rispetto all’Australia (mia prima esperienza di Working Holiday). Di fatto l’isola nord è lunga circa 1.000 km, ed è facilmente percorribile in pochi giorni da un capo all’altro, mentre nella vicina isola rossa spesso dovetti guidare per 2.000 km solo per andare da una tappa all’altra.

Discesi nel Distretto di Whangarei abbiamo deciso di scalare il Mount Manaia, che proprio una montagna non è, essendo alto 420 m, ma è parecchio ripido. Dalla cima la vista è mozzafiato e vale la pena percorrere la veloce scalata se si passa da lì.

Successivamente ci siamo recati a Waipu, dove si trova una delle più belle spiagge della Nuova Zelanda, anche se non è turisticamente famosa, ma che merita sicuramente almeno uno stop.

A circa mezz’ora di guida nell’entroterra dalla cittadina si trovano le tenebrose Waipu Caves, delle caverne sperdute in mezzo alle colline, raggiungibili tramite una stradina sterrata in fondo alla quale uno spiazzo con una dozzina di van da backpacker ti fa capire di essere arrivato nel posto giusto.

Le caverne sono aperte al pubblico ma non c’è nessunissima misura di sicurezza né ranger o staff a controllare l’accesso. Tutto è assolutamente naturale e lasciato così com’è sempre stato. Una discesa nelle Waipu Caves non è sicuramente adatta a claustrofobici o turisti occasionali, ma non è mortalmente pericoloso. Dopo una prima perlustrazione abbiamo capito il motivo per il quale la gente ci si dirigeva a piedi nudi: le caverne sono allagate ad altezza caviglia-ginocchia. Ovviamente è necessario visitarle con una torcia, possibilmente una da minatore da fissare alla testa in modo da avere le mani libere.

Le caverne sono famose per essere casa dei Glowworms, cioè larve di insetti bioluminescenti che vivono appiccicati alle pareti delle grotte emettendo una lucina blu che, a condizioni di buio completo, sono veramente spettacolari a migliaia tutte intorno a te.

Una volta lasciate le caverne abbiamo proseguito verso sud, e dopo un paio d’ore eravamo ancora ad Auckland per una meritata pizza napoletana, dopo la quale abbiamo proseguito il nostro viaggio verso la penisola di Coromandel.

In questa lingua di terra mi sono imbattuto in Hot Water Beach, una trappola per turisti. Non è altro che una comunissima spiaggia in cui è possibile scavare delle buche con una pala (5 $ per noleggiarla, parcheggio anch’esso a pagamento) e aspettare che, grazie alla marea, le buche si riempiano dell’acqua che filtra dalla sabbia e nella quale poi ci si immerge a far nulla, come in delle finte terme. Dieci minuti dopo aver parcheggiato il van e aver visto di cosa si trattava mi sono subito spostato 5 km a nord, in quella che reputo la miglior spiaggia dell’isola nord, Hahei Beach.

Hahei è anche il punto di partenza per raggiungere il pezzo forte della Coromandel, ovvero la famosa Cathedral Cove. Quando ci siamo stati noi, a fine aprile, il parcheggio sovrastante il sentiero che porta alla grotta era chiuso, pertanto abbiamo dovuto farci a piedi la strada – in salita – da Hahei. Mettete in conto una camminata di almeno 45 minuti per raggiungere Cathedral Cove.

La spiaggia è racchiusa in una stretta baia e divisa in due da un promontorio naturalmente scavato a forma di “cattedrale”, la quale si può attraversare per passare da una parte all’altra della spiaggia.

Purtroppo questo posto è il più famoso di tutta la penisola di Coromandel – e uno dei più famosi della Nuova Zelanda – pertanto la folla era notevole nonostante la stagione, con tanto di shuttle che portavano clienti avanti e indietro dal lontano parcheggio all’inizio del sentiero e, addirittura, con un servizio di taxi navale dalla spiaggia di Hahei. Sono sicuro che in estate sia invivibile.

Il giorno seguente abbiamo proseguito verso sud raggiungendo in mattinata la Karangahake Gorge, un canyon dentro il quale sono passate decine di cercatori d’oro negli ultimi due secoli. Lì è possibile attraversare un buio tunnel ferroviario ormai in disuso, lungo 1.100 metri.

Lo stesso giorno ci siamo recati anche alla famosa località termale di Rotorua, probabilmente il punto più famoso di tutta l’Isola Nord insieme al vulcano Tongariro.

A Rotorua molto interessante il villaggio Maori sorto intorno alle attività geotermali del sottosuolo, che eruttano tramite geyser ed enormi pozze di fango ribollente. Il vapore sulfureo che sfiata dal terreno viene usato dagli abitanti del luogo anche per riscaldamento e altre attività domestiche. L’ingresso al villaggio costa 38 NZ$.

Dopo aver lasciato Rotorua il viaggio verso sud mi ha portato casualmente sulla strada delle Huka Falls (delle bellissime cascate azzurrissime, ma parecchio affollate) e i Craters of the Moon, proprio lì accanto. Qui con soli 8 $ si può camminare in mezzo a un’altra enorme zona geotermale, ricca di crateri vulcanici (da cui il nome) e colonne di vapore acqueo che creano un panorama apocalittico ma afascinante.

Finalmente il viaggio ci portò a Taupo, sulla riva dell’omonimo lago. L’obiettivo era quello di percorrere l’intero Tongariro Alpine Crossing (“passo alpino”), che si trova sulla sponda sud del lago, il giorno seguente.

“Il Tongariro” è una delle escursioni più famose del mondo, e facendolo ho capito il perché. Il percorso di quasi 20 km mi ha portato fin sulla cima del vulcano (1.978 m), dal quale ho ammirato panorami letteralmente mozzafiato su tutto il parco nazionale e tutti i dodici coni vulcanici – ognuno ha il suo proprio nome – che formano appunto il Monte Tongariro.

Sulla vetta del Tongariro

Sulla vetta del Tongariro

L’intera scalata, con discesa, dura circa 6,5-7 ore ed è più impegnativa del previsto. Il fatto che ci salgano famiglie e persone di ogni età non è dato dalla sua facilità, ma più per la sua notorietà e la facile accessibilità.

Le condizioni atmosferiche si sono rivelate assolutamente perfette, con il sole che non ci ha abbandonati per tutto il giorno, mascherando completamente le basse temperature in cima (circa 7°C).

Appena discesi dal Tongariro ci siamo diretti sulla costa est, nella carinissima Napier. La cittadina, ricostruita dopo un terremoto del 1931 in stile art-déco, è stata una bella sorpresa. La prima (e unica) città neozelandese che avesse qualcosa di differente od “originale”, rispetto alle centinaia di cittadine fatte con lo stampino incontrate durante tutto il road trip.

A questa assoluta povertà architettonica mi ero già abituato in Australia nel 2016, ma un anno in Europa me ne aveva fatto scordare. Ogni città neozelandese che si incontra, dalla più piccina alla più grande, è composta da una via principale piena di negozi, banche, attività, fast-food e ristoranti, dei quali il 90% facenti parti di catene nazionali o internazionali. Non appena si oltrepassa questo tratto ci si ritrova regolarmente in una zona residenziale prestampata, una zona industriale (o di magazzini) e poi la campagna, fino ad arrivare alla seguente cittadina, della quale ci si scorderà presto il nome, non avendo dettagli che aiutano la memoria.

Da Napier, dopo aver preso una multa per aver pernottato accanto a molti altri backpackers in un’area di sosta regolarissima, ma stando due metri fuori dalle linee bianche che la delimitavano, abbiamo solo guidato fino alla costa sud, fermandoci una notte in una bella foresta vicino a Pemberton North (che invece fa schifo).

Sulla costa sud ci siamo quindi spinti fino a Cape Palliser a vedere i Pinnacoli e il faro, per poi arrivare in serata nella capitale neozelandese, Wellington.

Purtroppo nei tre giorni passati in città il tempo non è stato magnanimo come era capitato fin lì, e ho beccato pioggia, vento e nebbia. Però la città è molto bella, semplice ma bella. Più a misura d’uomo di Auckland, con i suoi 412.000 abitanti Wellington mi ha ricordato alcune città europee. Ricca di musei molto interessanti (The New Zealand Portrait Gallery, Wellington Museum, City Gallery), una bella baia, e Cuba Street, una via piena di locali e persone strane. La città è dominata da alcune colline, dalle quali si ha un’ottima vista dell’aera circostante.

Lasciata la capitale abbiamo iniziato la risalita verso Auckland, stando sulla costa ovest. Qui ci siamo imbattuti, sempre casualmente, in Wanganaui. Qui abbiamo scoperto che la città è famosa per la fiorente produzione di vetro soffiato artigianale. In un laboratorio in centro – gratuito – abbiamo visto all’opera i maestri vetrai creare bellissimi vasi e ampolle colorate, soffiando il vetro fuso preso da un forno a 1.600°C.

Il van Jeff Buckley e il Monte Taranaki sullo sfondo.

Il van Jeff Buckley e il Monte Taranaki sullo sfondo.

Dopo Wanganaui ci siamo recati ad un altro famoso vulcano, il Monte Taranaki. La scalata qui non è stata possibile per via del ghiaccio e neve presenti sulla cima. La camminata di circa 10 ore era riservata a scalatori esperti, muniti di ramponi e piccozze per il ghiaccio, pertanto ci siamo accontentati di un paio di trekking intorno alla montagna e ad un vicino laghetto.

In serata abbiamo pernottato sulla surf coast, a New Plymouth, nel quale abbiamo passato anche il giorno seguente in totale relax.

La risalita verso Auckland riservava pochi altri spunti (la costa ovest da Wellington a Auckland non è molto interessante), e ci siamo solo fermati alle grotte di Waitomo, proprietà privata di una famiglia Maori fin dalla loro scoperta nell’800. La visita guidata nelle caverne, alla scoperta dei luminosi Glowworm, costa 51 $ e ne sarebbe valsa la pena se solo la brevissima crociera finale fosse durata qualche minuto in più.

Dopo l’ultima notte di campeggio dalle parti di Kawhia abbiamo guidato verso nord, concludendo il viaggio da dove eravamo partiti.

Clicca qui per vedere la Galleria Completa del mio viaggio nell’isola nord.

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